Così si apre una delle più realistiche e straordinarie serie TV che io abbia visto negli ultimi tempi.
Si tratta di After Life, la “sitcom”, che tanto ridere non fa, in cui Tony, il protagonista, deve avere a che fare con la morte prematura di sua moglie.
La prima puntata mette subito in luce quale sia l’atteggiamento di Tony nei confronti del lutto appena vissuto.
L’uomo, infatti, ha quotidiani pensieri suicidi, che sembrano essere la sua unica consolazione, l’idea di potersene andare quando vuole e smettere di provare quello che sente lo sostengono durante le giornate, in cui arranca fra il lavoro e il suo cane.
L’atteggiamento di Tony è astioso nei confronti di chiunque gli stia intorno, da suo cognato ai suoi colleghi a tutte le persone che deve intervistare per il giornale locale.
Fin qui in realtà potrebbe non essere niente di straordinario rispetto a qualsiasi altra storia che parli di lutto e elaborazione.
Molto spesso, infatti, tutti i prodotti cinematografici e non che trattano questo argomento sono pervasi da quella che in molti chiamano cultura della positività.
La cultura della positività: perché ci fa del male
Molti psicologi ormai hanno identificato questa preoccupante ricerca egocentrica che tende al sentirsi bene come cultura della positività.
Questa preoccupazione costante per la felicità e l’ottimismo è in contrasto soprattutto con chi ha subito una perdita e con il dolore che prova.
Nel suo libro, “Sopportare l’Insopportabile, l’Amore, la Perdita e il Sentiero Straziante del Dolore”, la Dott.ssa Joanne Cacciatore affronta questa “cultura della felicità”, presentando storie vere di dolore e perdita, compresa la sua. Il messaggio del libro, che può suonare assurdo a chi è pervaso dalla cultura dell’ottimismo, è che dobbiamo fare spazio al nostro dolore, che va bene non “andare avanti”, almeno non nel modo in cui la società si aspetta.
La dottoressa Cacciatore in questo testo lotta contro tutti i luoghi comuni e le frasi fatte che tormentano chi ha subito un lutto e delle quali ho già parlato in molti miei articoli. Soprattutto contro l’impazienza che sembra circondare chi è fermo nel dolore.
La maggior parte dei film e dei libri che affrontano il dolore comunicano
subliminalmente questa impazienza, trasmettendo il messaggio che dobbiamo
superarlo, dobbiamo andare avanti e in qualche modo, magicamente, dobbiamo
guarire da un trauma che ci ha effettivamente distrutto. Ciò (direttamente o
indirettamente) implica che il dolore è colpa nostra e che abbiamo il potere di
“ripararlo”.
Forse hai idea di quello che di cui sto parlando. Film che iniziano con lei, o lui, distrutti dal dolore, incapaci di vivere, chiusi in loro stessi, bloccati nella loro sofferenza, che vivono nell’ombra di quello che di tragico hanno passato.
Puntualmente poi qualcosa accade nella loro vita, arriva una persona nuova, un amore, un bambino o qualcosa del genere e il loro dolore sembra sparire alla luce di questa nuova presenza che sembra in grado di “guarire”.
Il protagonista sembra quindi fare ammenda per i suoi comportamenti scorretti o sembra chiedere scusa per la tristezza profonda e (apparentemente) incurabile che ha provato fino a quel momento e ritorna alla vita.
Il messaggio che passa quindi è che chi vive un lutto è un malato da curare, un “oggetto” rotto da riparare o qualcosa del genere.
La realtà però è che alcune parti di noi rimangono rotte per sempre
È difficile assistere al dolore. La morte è difficile da accettare. Il mito popolare di “guarigione” dalla perdita traumatica è affascinante in una società che abbraccia la felicità perpetua, ma questa idea è qualcosa di più della finzione? È possibile nella vita reale?
La risposta è no. Ciò non significa che siamo condannati alla tristezza infinita e che sto spingendo ad accettare il dolore e rassegnarsi, anzi.
Riconoscere tuttavia la sua esistenza e consentirgli di fare il suo percorso è l’unico modo per conviverci in modo sano.
Per questo mi ha tanto colpito After Life, perché non presenta un modello di pronta guarigione che faccia scaturire lacrime facili in tutti i telespettatori, ma proprio il contrario.
In After Life, Ricky Gervais interpreta “Tony”, come ti accennavo, un uomo che
ha perso la moglie, con la quale era sposato da venticinque anni, a causa di un
cancro. La loro relazione era genuina e amorevole, come s’intuisce dai numerosi
video che la moglie di Tony gli ha lasciato e che lui guarda durante l’intera
serie. In molti dei video la moglie di Tony gli fornisce istruzioni e
incoraggiamento su come andare avanti senza di lei.
Non è chiaro quando sia venuta a mancare, ma è evidente che è un lutto recente quello che sta vivendo.
La sua convinzione di potersi uccidere da un momento all’altro dà a Tony la
libertà di essere sincero e schietto, spesso calpestando i sentimenti degli
altri con un noncuranza quasi spietata.
Non è facile assistere al comportamento distruttivo di Tony, né per gli spettatori, né per i personaggi del telefilm che continuano con amore e pazienza a stargli accanto, nonostante il trattamento tutt’altro che gentile che ricevono in cambio.
Il dolore di Tony è antitetico alla cultura della felicità che abbiamo attentamente costruito nella nostra vita moderna. Pur essendo una commedia è più facile che ti ritrovi a piangere piuttosto che a ridere, a sentirti a disagio per lui piuttosto che a trovare buffo il suo comportamento.
C’è una donna, nel corso della serie tv, alla quale Tony si avvicina con un interesse vagamente romantico e, per chi come noi è abituato a finali positivi e guarigioni improvvise, questo potrebbe essere confuso proprio per quel personaggio in grado di far sparire tutto il dolore e far ricominciare la vita, tuttavia After Life non è un semplice telefilm, almeno non per quanto riguarda tutto l’aspetto di finzione, ma è uno scorcio di vita brutale.
Il percorso che vediamo a fare a Tony è quello di molti di noi, certo condito da esperienze più o meno buffe, siamo pur sempre in televisione, ma i passaggi sono quelli che affrontiamo tutti quando siamo posti davanti a un lutto.
Anche nell’affrontare le diverse fasi del lutto, la serie rimane realistica, non c’è un netto passaggio tra una e l’altra, ma vediamo tutte insieme; rabbia, depressione, contrattazione e (più o meno) accettazione.
Nell’ultima puntata della stagione, Tony inizia una parte del percorso più consapevole, in cui comprende le dinamiche interiori che lo hanno guidato fino a quel momento, capisce di aver punito tutti coloro che lo circondano per la sua infelicità e cerca di fare un passo verso lo stare meglio.
Sembra il classico finale di cui parlavamo prima, giusto?
Non esattamente.
Quando un personaggio della serie gli domanda se è felice, lui risponde “non esageriamo”. Se stai vivendo un lutto o ti stai preparando a farlo, magari sta succedendo anche a te, le persone intorno spesso è come se spingessero per farti fare una dichiarazione di benessere.
È l’impazienza della quale parlavamo prima. La smania di vederti di nuovo al meglio. Non c’è cattiveria in un comportamento del genere, né freddezza, né insensibilità. C’è l’amore nei tuoi confronti e la difficoltà a comprendere che la fretta non è ciò di cui hai bisogno.
Questa mancanza di comprensione deriva invece da una cultura, la nostra, molto legata all’ottimismo forzato di cui abbiamo parlato qualche riga fa, e figlia di uno dei più grossi tabù del secolo scorso.
In Italia, infatti, in molte parti del mondo devo ammettere, ma in particolar modo nel nostro paese, la morte non si può nominare, le giornate devono mirare alla felicità, tutti noi abbiamo come unico obiettivo quello di essere sempre al massimo della nostra forma.
Per questo il finale della prima stagione di After Life è tanto straordinario quanto toccante. Tony, infatti, non è un uomo guarito, è un uomo che, avendo compreso l’unicità della vita, cerca di continuare il suo viaggio, abbandonando i suoi istinti suicidi.
È un uomo che accetta il fatto che sta soffrendo, che include questo pensiero nella sua vita e che cerca il modo migliore per vivere il suo lutto, senza ferire chi gli sta intorno.
L’ultimo video di sua moglie che viene presentato in questa stagione è quello in cui lei così dice:
Nonostante questo, nonostante questo “via libera”, Tony stesso afferma di continuare a sentirsi in colpa anche solo nel provare interesse verso qualcun altro.
Non voglio riassumerti l’intero contenuto di 6 episodi in un articolo, non è di certo il mio scopo. Volevo solo invitarti a guardare questa straordinaria serie e in generale a “consumare” contenuti che parlano di lutto e che lo facciano tenendo in considerazione la complessità, le sfumature, i bianchi, i neri e gli infiniti grigi che ci sono in mezzo.
Qualcuno potrebbe dirti che non è sano, che non farà altro che ricordarti il dolore che hai vissuto o che stai vivendo. La realtà però è che noi sappiamo che quel dolore non può essere dimenticato domani e non ha senso fare finta che non esista.
L’argomento, come avrai notato, è davvero molto vasto e non può di certo essere toccato in queste poche righe. Per questo ho scritto Quel che resta è l’amore, il volume in cui ho cercato di racchiudere questi 20 anni di lavoro nei servizi funebri e questi ultimi tre anni di ricerca meticolosa a fianco di psicologi nel campo dell’elaborazione del lutto.
Un libro non può ovviamente insegnare come vivere il lutto, soprattutto perché siamo tutti diversi e ognuno ha la sua sensibilità, quello che però può fare e che è sempre stato il mio obiettivo fin dalle righe mai scritte, è scardinare, un pezzettino alla volta, il muro di silenzio intorno a questa vitale tematica e aiutarti a viverla nel modo più dolce possibile.
Se vuoi leggere la presentazione e acquistare una copia per te o per qualcuno a te caro, ti consiglio di andare qui: www.restalamore.com
Finalmente uno sguardo diverso e realistico sul lutto e la morte. Dire la verità aiuta molto più che disonoscerla o ignorarla.