Sei settimane dopo aver perso suo marito, era a casa nel suo appartamento, nell’Upper West Side, alle prese con l’arrivo di un brutto raffreddore che coincideva con l’arrivo della primavera.
Entrò nell’armadio del marito, proprio di fianco al suo nella camera da letto, e contemplò le centinaia di cravatte che Jack aveva collezionato dagli anni ’50. Premette un pulsante su una rastrelliera elettrica che li conteneva – gliel’aveva regalata proprio lei – e vide passare la collezione davanti a sé.
Alcune cravatte spiccavano più di altre: quelle due cravatte liberty di Londra con piccole stampe floreali, quella blu con sopra la faccia di Babbo Natale.
Tra le altre scorse quella a strisce nere e argento che indossava al loro matrimonio, e poi di nuovo alla sua festa per il 75 ° compleanno.
La prese in un gesto d’impulso per darla a suo genero, per darle un nuovo significato, una nuova vita.
Di tanto in tanto lo faceva – apriva l’armadio e ne prendeva il contenuto, le camicie e i maglioni di decenni prima che lui aveva indossato magnificamente per così tanto tempo.
Era un abbigliamento raffinato, pensato per essere indossato da qualcuno. Ma non avrebbe affrettato i tempi. Non voleva ancora dare via le sue cose. Perfino il suo spazzolino da denti era ancora al suo posto sul lavandino, lì, a un centimetro dal suo.
La sera prima, era rimasta alzata fino a tardi, come era diventata sua abitudine, guardando vecchi film, addormentandosi alla vista confortante e familiare di Ginger Rogers e Fred Astaire che ballavano o Jimmy Stewart nei panni di Jimmy Stewart.
Poi aveva dormito fino a tardi, come se cercasse di recuperare il sonno perso durante gli anni della malattia di suo marito. Quando si era svegliata, aveva indossato una delle vecchie camicie di Jack come camicia da notte e si era sistemata un po’. Aveva mangiato un toast, anche se non aveva molto interesse per il cibo. Era da poco che aveva iniziato a pensare ai bei momenti, al teatro a Londra, alle vacanze a Puget Sound; aveva trovato una sua foto davanti alla sua panetteria preferita, quella che aveva amato fin dalla sua prima infanzia.
A volte piangeva, ma comunque non riusciva a fare a meno di ricordare.
Questa è una normale giornata di Barbara Ramsey, un’attrice americana, da quando ha perso Jack, suo marito, così come lei stessa la racconta al New York Times in un articolo estremamente toccante.
Durante tutto il pezzo si affronta uno dei temi più delicati riguardo al lutto: quello che viene dopo.
O meglio, come ricordare chi se ne è andato.
Com’è giusto farlo?
Per quanto possiamo andare avanti a ricordare?
Quando ricordare è diventato patologico?
“Devi andare avanti”
Qualcuno potrebbe avertelo detto o potresti averlo letto negli occhi di chi sta vicino.
Non è una frase che ti viene detta per cattiveria o mancanza di tatto, in Italia purtroppo per una questione culturale che deriva direttamente dalla Prima Guerra Mondiale, non siamo abituati a rapportarci con il lutto.
La morte è tutt’ora considerata un tabù, un argomento estremamente delicato del quale non si può parlare e che deve essere vissuto nella propria dimensione domestica.
Non si può mostrare al di fuori la ferita di chi ha perso l’amore, che sia il padre, la madre, il figlio o l’uomo con cui aveva scelto di passare la vita.
Uno qualsiasi di noi, leggendo la storia di Barbara qui sopra, a primo impatto penserà di certo che è eccessivo arrivare a conservare uno spazzolino usato.
O almeno, lo potrebbe pensare chi non ha mai provato il dolore straziante di separarsi da qualcuno che ami con tutto il tuo cuore.
Barbara non era alla sua prima esperienza di lutto.
Quando parlo di elaborare il lutto non intendo superarlo o lasciarselo alle spalle, ma riuscire a conviverci e nella maniera più sana possibile, portando comunque sempre con sé il ricordo di chi non c’è più.
Aveva già perso un uomo che amava, il suo primo marito, il padre dei suoi figli, che aveva 63 anni quando morì.
Quando Jack, il suo secondo marito, è venuto a mancare, è tutto tornato indietro.
I suoi movimenti irregolari, la sua incapacità di concentrazione, il senso del tempo che si allungava interminabilmente fino al sonno.
Una perdita non istruisce una persona su come resistere meglio ad un’altra; anzi, se la prima non è stata elaborata, ma messa a tacere sotto un tappeto, la nuova perdita non fa altro che evocarne il dolore mai espresso.
Meglio ricordare o non ricordare?
Qualcuno potrebbe pensare che è ricordare eccessivamente l’altro che crea sofferenza e che ci sia qualcosa di morboso nel pensare con insistenza a chi non c’è più.
Partendo dal presupposto che, come ho già scritto in molti articoli, l’esperienza di lutto è unica e ognuno la vive nel suo particolare modo, ci sono però alcuni piccole linee guida che valgono per tutti.
Sembra un controsenso, ma è un po’ come se tu avessi una mappa per andare in uno specifico posto, la strada è quella, ma come percorrerla, se con passo lento, veloce, se fermandoti lungo il cammino, se correndo per tutto il tempo, è una scelta soltanto tua.
La verità invece è che è ricordare molto spesso è un aiuto prezioso.
Una delle frasi che più si sente ripetere è che i morti ci sono ancora, vivono attraverso di noi.
Io trovo che ci sia un’interpretazione un po’ diversa da dare a queste righe, molto più vicina a ciò che Barbara Ramsey dice:
“Tutto quello che il mio primo marito, tutto quello che Jack mi ha dato, ce l’ho ancora”, dice “Perdi la presenza fisica certo, ma non perdi quello che ti hanno dato”.
Il ricordo è parte integrante di quello che ci rimane di chi non c’è più e molto spesso passa attraverso gli oggetti.
Buttare tutto o conservare tutto? Gli estremi non sono mai salutari
C’è chi, come Barbara, ha conservato ogni singolo oggetto del marito, padre o, più in generale, persona che è venuta a mancare e c’è chi invece ha gettato via ogni cosa.
Un momento tipico dopo un lutto è quello di svuotare le case, in particolar modo dei genitori.
Si fanno scatoloni, si imballano vestiti, maglioni, libri, album di foto e li si spingono fuori casa, come se aiutasse ad alleviare il peso che abbiamo sul petto.
Nessuno lo fa con leggerezza, anche chi decide di gettare via tutto, non lo decide a cuor leggero.
Uno spazzolino sul lavandino può ricordare tutte le mattine davanti allo specchio insieme.
Una poltrona porta alla memoria immagini del padre intento a leggere il giornale la domenica.
Un cappotto poteva essere il preferito di tuo marito, potevate averlo scelto insieme in un giorno di shopping in città.
Come è successo a Barbara, puoi pensare al vostro matrimonio, al suo settantacinquesimo compleanno, al tuo, al caffè la mattina o al bicchiere di vino la sera.
Siamo tutti pieni di ricordi e gli oggetti non fanno che veicolarli con forza.
La scelta più giusta quindi non è gettare tutto via, né tantomeno essere sommersi da cose di chi non c’è più.
Serve una via di mezzo, che ci faccia conservare alcune cose scelte con cura e amore e magari ci aiuti a dare loro un nuovo significato.
Trovare un senso: la sesta fase del lutto
“Ma non erano 5?”
Lo erano fino a poco tempo fa:
- Negazione;
- Rabbia;
- Negoziazione;
- Depressione;
- Accettazione.
Così le abbiamo sempre conosciute, tuttavia di recente David Kessler, un esperto di lutto e coautore con Elisabeth Kübler-Ross dell’iconico libro On Grief and Grieving, ha aggiunto una sesta fase che io trovo (perdonami il termine) meravigliosa.
Attraverso la sua drammatica esperienza personale e la saggezza acquisita nel tempo, David comprende di dover trovare un modo per superare la perdita inaspettata e devastante di suo figlio, un modo per onorarlo.
Qui, in definitiva, trova il sesto stato di dolore: il significato. Trovare il significato è un’aggiunta necessaria alla letteratura sul dolore e una guida vitale per la guarigione da un’enorme perdita.
In quest’ottica di trovare un significato si inserisce il rapporto con gli oggetti di chi non c’è più
La più bella cravatta indossata dal marito può dare un tocco di eleganza al figlio durante una festa importante.
La poltrona che sarebbe rimasta lì a prendere polvere può diventare il nostro personale rifugio, un angolo dove leggere in pace e ritagliarci un nostro angolino di mondo.
Il maglione può accompagnarci nell’inverno freddo, così come avrebbe fatto chi non c’è più.
Una maglietta può proteggerci dagli incubi la notte.
Una collezione di libri può essere donata alla biblioteca della città e permettere ai ragazzi più curiosi di leggere e imparare cose nuove.
Lo stesso vale per il ricordo
Molti, dopo un lutto, sentono la necessità di parlare continuamente di chi se n’è andato e di condividere, anche con gli sconosciuti, ricordi più o meno belli.
È un momento che inizia al funerale, condividendo con la sala, anche se non la si conosce appieno, qualche pensiero su chi non c’è più. Per questo è così importante il funerale, perché è un momento di condivisione dal quale può partire una buona relazione con il ricordo.
Non sentirti in imbarazzo se è il tuo caso, non pensare che ci sia qualcosa di strano in te, e non tenere per te un ricordo che ti torna alla mente.
Non tutti saranno disposti ad ascoltarti, lo capisco, potresti essere considerato pesante, monotono, fissato sempre sullo stesso tema, certo, ma è una tua fondamentale necessità ed è giusto che tu lo esplichi.
Molto spesso, gli uomini soprattutto, non si sentono a loro agio nel condividere, tengono quindi per loro la tristezza.
Passano davanti a un bar pieno di ricordi tristi, colmo di memorie, e scuotono la testa come per mandare via una mosca.
Per riuscire a entrare nella sesta fase e dare un significato alla perdita che si è subita è necessario parlare, ricordare. Non tutti arrivano a questo sesto stadio, ma per alcuni potrebbe davvero essere il luogo dove trovare sollievo.
Questo non vuol dire che essere in grado di trovare un significato può cancellare il dolore, semplicemente che può alleviare l’angoscia del lutto e aiutare le persone ad andare avanti. Il dolore del lutto è una reazione naturale alla perdita di qualcuno che ami.
Per dare una risposta al titolo, sì, devi andare avanti, ma non nel senso di lasciarti alle spalle ciò che hai perso, gettando via tutto e seppellendo i ricordi.
Al contrario, nel senso di procedere verso il futuro, passando attraverso il dolore e portando con sé il ricordo in una veste nuova.
Non pretendo di esaurire il tema del lutto in un articolo, volevo semplicemente mettere al tuo servizio i miei anni di esperienza con il dolore per aiutarti in un momento difficile.
Qualche tempo fa, infatti, mi sono reso conto di quanto sia difficile parlare di morte e di lutto in Italia e ho deciso quindi di scrivere un libro per diffondere il più possibile queste tematiche nel nostro paese e contribuire all’eliminazione di questo antico tabù.
Se pensi possa esserti utile, ti consiglio di leggere la presentazione che trovi qui: www.restalamore.com
Spero ti possa aiutare
Andrea Cavallaro