Alle 18 del giorno attuale, ossia nel momento stesso in cui sto scrivendo queste parole, i morti per Coronavirus sono 4825.
4825 persone che prima c’erano e ora non ci sono più.
Non sto scrivendo questo articolo per commentare i casi dei giorni attuali e aumentare l’ansia che già imperversa in tutto il paese. Sicuramente è importante e non voglio ignorare il dramma che sta sconvolgendo l’Italia e anche tutto il Mondo, parlando d’altro.
Ciò che voglio fare è cercare di dare il mio piccolo contributo e aiutare tutti coloro che in questo momento stanno affrontando o stanno per affrontare un lutto, che sia per Coronavirus o qualsiasi altra causa.
Sembra contradditorio con ciò che ho appena detto, ma la realtà è che parlerò di Coronavirus, come è inevitabile fare, ma non per dare numeri, cifre o statistiche, ma per considerare tutti coloro che, ora come ora, non hanno una voce.
So che il primo punto sul quale tutti si concentrano è l’emergenza sanitaria, ed è giusto così, in tempi difficili si procede per priorità e la “cosa” più urgente della quale preoccuparci è di certo la salute.
Tuttavia c’è un altro killer pericoloso che pochi prendono e prenderanno in considerazione anche una volta che tutto sarà finito e che ci troveremo a poter uscire di nuovo, ad abbracciarci o fare tutto ciò che abbiamo sempre fatto.
La questione riguarda chi sarà rimasto qua con un lutto molto particolare da affrontare in un momento in cui tante altre preoccupazioni ci angustiano.
Nel nostro paese, infatti, c’è quasi da sempre una mancanza di cultura in termini di lutto e morte ed in casi come questi la questione viene acuita dalle circostanze sfavorevoli.
Quando il lutto non è solo nostro, infatti, ma diventa un numero collettivo, rischiamo facilmente che venga spersonalizzato e che tu non possa vivere “nella maniera corretta” quello che ti sta accadendo.
Ho messo questo “in maniera corretta” fra virgolette perché non esiste una manuale di istruzioni per chi vive un lutto, non è come costruire una casa o fare una qualsiasi altra attività pratica.
Prendi i mattoni, prendi la malta, segui dei passaggi, hai un geometra, un architetto e alla fine tutto è com’era stato preventivato.
Passare attraverso un lutto, invece, è un’esperienza molto personale e in quanto tale non può essere catalogata in un “manuale di istruzioni”, tuttavia ci sono alcuni consigli utili che voglio darti.
Come forse sai, la mia esperienza in fatto di lutti ha poco a vedere con la teoria e molto con la pratica. È infatti da oltre 20 anni che opero nel settore dei servizi funebri e lavoro al fianco di persone che hanno perso chi avevano di più caro.
Ho visto con i miei occhi le più disparate situazioni e ho imparato una cosa: in questo paese non sappiamo cosa fare davanti a chi soffre.
È un retaggio culturale molto complesso, derivante da una traumatica esperienza nazionale avvenuta nel primo dopo guerra.
Nel 1918, infatti, il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, ha vietato funerali, processioni, veglie e persino il suono delle campane per due anni.
Questo avvenne al termine della Prima Guerra Mondiale e in coincidenza con l’arrivo della febbre spagnola, una delle più grandi pandemie della storia. In quel periodo nessuno ha potuto piangere i suoi morti.
Ti ricorda qualcosa? Purtroppo la storia si sta ripetendo, quello di 102 anni fa è stato un tentativo goffo di negare la morte, di nasconderla agli occhi delle persone (come se si potesse…), stavolta invece è per cause di forza maggiore, per evitare la diffusione del virus.
Rimane il fatto che quell’episodio ha reso la morte un argomento tabù e ha creato un forte trauma ai nostri nonni o bisnonni, che è arrivato fino a noi, alterato dai cambiamenti sociali e dalle innovazioni tecnologiche, che ci portano a essere sempre più distratti.
Un retaggio che ci impedisce di vivere a pieno il dolore, quindi, esiste già e non farà altro che acuirsi nel momento in cui saremo costretti a vivere in prima persona la stessa identica esperienza.
La conseguenza più immediata è che chi soffre non sa a sua volta come comportarsi di fronte al suo dolore.
Per questo, quando i giornali parlano di 4825 morti, io non posso fare a meno di pensare quanti racconti ci siano lì dietro, quanti ricordi, quante persone che rimangono qui da sole, quanti pranzi che non verranno più fatti, quanto possa essere acuta la sofferenza.
L’ho già detto, ma ci tengo a ribadirlo, quando si lavora in emergenza è normale occuparsi prima di tutto di sopravvivere. Fra vivere e sopravvivere però c’è una netta differenza.
La differenza è nella qualità della vita che portiamo avanti, in come ci sentiamo tutti i giorni.
In quanto dolore abbiamo represso lì sotto per non trovarci a letto a piangere ogni singolo giorno.
In quante volte un ricordo ci appare all’improvviso e, invece di farci nascere un sorriso dolce anche se malinconico, ci spezza il cuore.
L’ho fatta volutamente semplice e non ho citato i danni psicologici. Questo perché non sono un professionista in quel campo e perché, per quanto mi sia informato e sia stato negli ultimi anni a contatto con persone eccezionali in tal senso, preferisco che la parte “tecnica” sia lasciata a loro.
E poi perché i miei articoli, così come il mio libro e tutto ciò che scrivo e divulgo in generale, non hanno la presunzione di porsi come trattati scientifici, lungi da me, ma di arrivare a quante più persone possibili che si trovino in momenti di sconforto e dar loro un po’ di aiuto, un po’ di sostegno.
Tornando a noi, quello citato non è l’unico problema che un’epidemia del genere sta portando, anzi.
Il secondo problema è legato alle circostanze in cui la morte accade. Avviene come tutte le altre?
Qualcuno potrà obiettare che la morte è morte e che non importa come avviene, conta quello che accade alla fine.
Posso assicurarti che non è così. Non lo è per la mia esperienza personale nei servizi funebri, ma non lo è nemmeno per i testi di psicologia che ho letto e i professionisti con i quali mi sono confrontato.
Il “come” importa
Tralasciando l’aspetto fisico, di quanto questo modo di andarsene possa essere doloroso, il punto è quanto lo è a livello morale.
Nella maggior parte dei casi, a meno che la morte non avvenga in maniera improvvisa ed inaspettata, siamo abituati ad esserci. A lunghe notti e giorni accanto a un letto d’ospedale, agli ultimi sorrisi, agli ultimi discorsi, ai baci, gli abbracci e alla frasi che non ci siamo detti per 20 anni che escono dalla nostra bocca.
Siamo abituati ad avere ancora un po’ di tempo, qualche ora, giorno o mese e poterci preparare a ciò che verrà.
Ma anche chi perde qualcuno all’improvviso, ha il privilegio di essere stato con lui fino a un’ora, un giorno, una settimana prima del triste momento.
Sono pochissimi invece quelli che vivono il lutto anticipato, sapendo cosa sta per accadere, ma non hanno nessun modo per avvicinarsi al loro caro.
Chi se ne va per il Coronavirus è da solo in un letto d’ospedale, dove, giustamente, per evitare ulteriori contagi, nessuno può andarlo a trovare.
Non sto dicendo che non sia la procedura giusta, anzi, meno persone verranno contagiate meglio sarà per tutti e meno lutti ci troveremo ad affrontare. Quello che però ci tengo a fare è mettere l’accento su chi rimane, accento che, per un motivo o per l’altro, nessuno ha tempo di porre.
Viviamo tutti una vita irrisolta, fatta di frasi non dette e di baci non dati, di liti futili. Non possiamo vivere come se ogni giorno fosse l’ultimo, ce lo dicono tante frasi motivazionali trovate qua e là, ma nessuno di noi ci riesce davvero.
La morte, quindi, ci ricorda all’improvviso l’ordine delle nostre priorità, ci fa sentire stupidi, inconsapevoli e superficiali.
Tutto questo non fa che riempirci di sensi di colpa, rimpianti e rimorsi che si vanno ad accumulare a tutti gli altri sentimenti negativi che stiamo vivendo.
Come si può alleviare questo senso di irrisolto?
Mi sono rivolto alla dottoressa Bazzanella per organizzare uno degli incontri di gruppo sul lutto che ho tenuto negli scorsi mesi e in quell’occasione ha dato questo utile consiglio, che voglio condividere con te che stai leggendo e che forse ti trovi in un momento difficile.
Quello che consiglia è di scrivere su un foglio una lettera di getto con tutto ciò che avremmo voluto dire a chi non c’è più.
Metti nero su bianco le tue paure sul futuro, i progetti che avresti voluto portare avanti insieme, i dubbi, le preoccupazioni, l’amore che hai sentito, quello che vorresti farti perdonare e quello che vorresti perdonare al tuo caro, le ultime cose che avresti voluto dirgli.
La dottoressa ha poi spiegato di bruciare il foglio, perché il fuoco ha un enorme valore simbolico e di trasformazione.
Poi puoi riporre la cenere in una pianta o in un posto comunque significativo, oppure farle volare via nel vento, come se in qualche modo potessero raggiungere il tuo caro che non c’è più.
Questo può compensare il fatto di non esserci detti le ultime parole prima di salutarci?
La risposta ovviamente è no, ma è un gesto simbolico che ci aiuta a rimettere in ordine i pensieri e sfogarci, eliminando un peso dal nostro petto.
Non è solo la solitudine il problema, infatti, chi viene a mancare in un’occasione del genere non ha una veglia funebre, né un funerale.
Qualcuno, i più insensibili magari, diranno che “chi è morto non si cura di queste cose”. Beh, la realtà è che è vero, il punto è che non sono loro i destinatari dei riti funebri.
I funerali, le veglie e la sepoltura sono pensati per chi rimane, per chi continua a calcare questa terra senza avere al proprio fianco la persona che amava.
La cerimonia infatti ha, fin dall’antichità, un altissimo valore simbolico perché è il primissimo passo per affrontare le fasi del lutto e riuscire ad andarci attraverso nella maniera meno dolorosa e più sana possibile.
Ciò non significa non soffrire, rispondere a tutti che stai bene, fare spallucce e girarti dall’altra parte, anzi, significa affrontare faccia a faccia quelle fasi senza lasciarne indietro alcuna e senza negare i sentimenti che provi.
Nel mio piccolo ho cercato di dare un contributo a riguardo scrivendo un libro qualche mese fa. In questo momento più che mai penso possa essere d’aiuto a tutti coloro che sono rimasti soli con il loro dolore in un periodo difficile come questo.
Penso che ognuno stia facendo la sua parte e questa è nel mio piccolissimo la mia.
Per prenderne una copia per te o per qualcuno che sta affrontando questo momento, vai su www.restalamore.com a leggere la breve presentazione che ho scritto.
Spero davvero che ti possa essere utile.
A presto,
Andrea